giovedì 5 aprile 2012

L’Aquila e Maurizio Maggiani. Un destino da costruire con le mani (Intervista video)



L'Aquila, 4 apr 2012 - A tre anni dal sisma che il 6 aprile 2009 ha colpito il capoluogo abruzzese tornano ad accendersi i riflettori sull’Aquila. Trasmissioni televisive, articoli e reportage su tutti i giornali, cartacei e on line. Le immagini e le testimonianze sono infinite, come le storie di chi quella notte c’era o di chi con quelle storie si è incontrato o scontrato, più o meno per caso.
Si può ricordare e rendere omaggio alla memoria in tanti modi. 
Tra le tante persone che in questi mesi hanno visitato questo luogo sospeso, lo scrittore Maurizio Maggiani
Forse dalle sue parole è possibile trarre una qualche consolazione, una qualche speranza. 

«Cosa vuol dire sperare?»
«Sperare vuol dire costruire. Io sono un uomo  speranzoso perché sono stato educato ad esserlo. Sono partito molto in basso, in graduatoria. Però lì in fondo non c’è mai stata l’impressione della miseria, della povertà dello spirito, delle proprie capacità o del proprio destino. Siamo anarchici, la mia terra lo è geneticamente, quindi ci crediamo poco che esista un solo destino; crediamo che ce ne siano almeno due, quello che ci viene  imposto e quello che per cui dobbiamo lottare.
Sono sempre stato educato da uomini e da donne, soprattutto da donne perché sono le più vicine alla vita di un ragazzo, sono stato educato a costruire con le mani il destino; e quando FAI la tua vita, allora non puoi che essere speranzoso, perché altrimenti sei un cretino, uno sconfitto, uno che non può che soccombere. Non sono mai stato, nella mia vita, indotto a pensare alla sconfitta, che è una tragedia dalla quale non hai più possibilità di emanciparti.
Di sconfitte ne abbiamo avute tante, ma siamo ancora qui, vivi, e siccome siamo vivi tutto quello che abbiamo da fare è costruire il destino. Questa è la speranza»

«La speranza è singola o si realizza nella collettività?»
«C’è una cosa che dicono tutti: che si stava meglio nelle tende che nelle case provvisorie. Io non credo che nelle tende si stia tanto bene, ma lì accadeva qualcosa che nelle case provvisorie non succede. Nelle tende hai per forza di cose un contatto continuo con gli altri e questo contatto continuo dà origine ad un continuo colloquio, un continuo parlare ed è questa disponibilità continua a parlare che manca oggi nelle case provvisorie.
Dormire, mangiare, bere, fare l’amore, parlare…queste sono condizioni irrinunciabili. Come costruisci il grande universo dell’amore, del cibo, il grande racconto del sonno, così costruisci il grande racconto del parlare, costruisci questa incredibile architettura dove dentro ci sei tu che hai bisogno di dar voce alla tua vita; e la tua vita è il farsi continuo di tutto quello che è venuto prima di te e che è venuto per farti, per abitarti, per fare di te quello che tu ora sei. Quindi tu sei non solo te stesso ma sei anche la memoria di tutto quello che ti ha generato».
«Nei tuoi libri ci sono stratificazioni di epoche, ci sono immagini, quadri. C’è l’amore. Tu dici che l’Appennino è una via, è una casa. L’Appennino è anche, però, una cicatrice, una ferita. Lo è anche l’amore?»
«Se l’amore non fosse una ferita sarebbe una tragedia perché ristagnerebbe e quindi marcirebbe. L’amore è quella vena di sangue che non deve fermarsi mai, deve sempre gocciare…goccia di sangue, goccia d’amore. E’ una ferita aperta. E’ il nostro dolore, la nostra fortuna. E’ il nostro sangue che se ne va per l’universo. Se smettesse di scorrere diventerebbe pus».
«Allora l’Appennino è ferita e amore insieme?»
«Sì…è la nostra amorevole casa».